“Perché guardi così?” E nessuno pensa che tutti dovremmo guardare sempre così, ciascuno con gli occhi pieni dell’orrore della propria solitudine senza scampo. (Luigi Pirandello, “Uno, nessuno e centomila”)
Che cosa banale, sposarsi in settembre – con rito civile perché Lui è divorziato – ed invitare pochi eletti nel di lui villone costruito in Brianza l’altro ieri in purissimo stile rinascimentale, perché Lui ha una quindicina d’anni abbondante in più di Lisa, che risplende tirata a lucido nell’abito in seta color panna d’alta sartoria, ma è anche parecchio ricco. E pure cafone, di una pervicace cafoneria che traspare dal gelido lusso griffato ed ostentato della sontuosa dimora: potrebbe essere stato questo tizio a commissionare il furto dell’Urlo di Munch, per poi restituirlo solo perché non poteva esibirlo in salotto.
E’ tronfio come un tacchino nel doppiopetto blu, smagliante sorriso da squalo con i denti perfettamente allineati ed assolutamente finti, studiatamente somigliante al compaesano che lo scorso gennaio è sceso in campo e oggi già siede al governo come se fosse alla destra del Padre con il piglio dell’imprenditore padrone, ghe pensi mi.
E pensare che vi era stato un tempo non così lontano in cui Lisa si sarebbe entusiasmata e financo commossa per la prima dichiarazione della Selva Lacandona degli Zapatisti nel Chiapas. Ma già, crescendo si cambia, e rendendosi conto di non saper cambiare il mondo ci si adegua, lasciandosi plasmare come docile creta dal caso, dalle necessità e dalle circostanze.
La sottoscritta, Lisa, Francesca e Laura: ci eravamo incontrate al Liceo Parini, dove eravamo arrivate a rivoluzione avvenuta, in quegli anni ’70 sbrigativamente ed efficacemente definiti “di piombo”, e tra quelle mura rimbalzava ancora l’eco dello scandalo suscitato dall’inchiesta sulla sessualità giovanile pubblicata sul giornalino scolastico “La Zanzara” nel ’66. Noi eravamo certamente “nostre” e lo fummo al punto che a metà degli anni ’80, a poco più di trent’anni, eravamo orgogliosamente e consapevolmente single, ben decise a goderci la nostra indipendenza e a sperimentare tutto ciò che le effimere notti milanesi potevano offrire.
Accadde nell’anno in cui compimmo trentasette anni che molte certezze presero a vacillare, o più semplicemente alcune abitudini vennero a noia, ed incominciammo a guardare con imbarazzata riprovazione certe mature signore che si ostinavano a stazionare tristemente nei locali frequentati da gente molto più giovane.
Fatto sta che nel giro di pochi mesi le mie amiche si fidanzarono e quelle relazioni apparvero da subito cose serie, e difatti sfociarono in breve tempo in convivenze o in matrimoni. Quest’ultimo di Lisa, al quale siamo tutte presenti, sancisce in forma ufficiale lo scioglimento del sodalizio che ci aveva unite per circa un ventennio, e certifica il mio caparbio isolamento sentimentale.
Osservo le mie amiche che svolazzano attorno a Lisa come minuscoli colibrì felici, raggianti della sua stessa soddisfazione, che è cosa ben diversa dalla gioia, e realizzo che non è il fatto che si siano sposate ad allontanarci, sebbene certo la presenza di un compagno abbia sovvertito le loro abitudini, quanto un’evidente disparità di prospettive e di aspirazioni.
Sono disturbata dalla patinata grandiosità di questo ambiente pretenzioso, e per contrasto e come antidoto mi raffiguro il piccolo appartamento a San Siro che ho sistemato secondo il mio gusto e che è la mia piccola isola, il mio rifugio. Dal terrazzino posso scorgere ciò che rimane delle scuderie De Montel ed assistere alla loro implacabile rovina, oscenamente epica. Affiorano tracce di vite reiette che si sono impossessate di un luogo moribondo, dove un orologio è da anni distonicamente fermo su un orario che potrebbe indifferentemente appartenere al giorno o alla notte, mentre il tempo seguita a scorrere, sebbene lì se ne sia smarrita la misura. All’improvviso ed in maniera del tutto incoerente l’orgoglio per la mia indipendenza sfuma fino a dissolversi, e mi sento semplicemente sola.
“Non reggerà ancora per molto”.
La voce profonda e corposa che mi ha strappata alle mie elucubrazioni appartiene ad un uomo alto ed elegante sui quarant’anni, capelli castani ondulati che sfiorano le spalle, il volto dai tratti decisi ingentilito da un curatissimo pizzetto, benevoli occhi castani dai riflessi dorati dietro gli occhiali dalle lenti prive di montatura.
“…che cosa?”
Fissando lo sguardo sulla sua bella faccia espressiva ho la curiosa sensazione di avere già visto quest’uomo, di più: di avere già vissuto questa scena. Ma certo, quanti incontri, avvenuti nei luoghi più disparati, sono incominciati con una frase qualunque pronunciata da un perfetto sconosciuto?
“…il bicchiere. Se ne sta aggrappata a quel bicchiere da un quarto d’ora buono, non reggerà ancora per molto: dovrebbe cercarsi un appiglio più solido”.
Sorride, ed è un sorriso gentile, quasi volesse scusarsi per l’impertinenza, ma l’espressione irridente degli occhi suggerisce altro.
“Amica della sposa?”
“Già. E non sto aggrappata ad un bicchiere, bevo. Amico dello sposo?”
Si stringe nelle spalle.
“…diciamo così. Una volta, forse. Nemmeno so perché mi abbia invitato, né saprei dirle perché ci sia venuto. Ora mi piace immaginare che tutto ciò fosse funzionale a questo incontro”.
Solleva il suo calice verso il mio, accompagnando il gesto con un accenno di inchino, e mentre il sole calante accende di riflessi sfavillanti i marmi, gli acciai ed i cristalli dell’imponente salone penso che conosco bene queste schermaglie e non vi è più nulla in questo senso che possa stupirmi o intrigarmi davvero, ma in fondo non ho niente di meglio da fare per sottrarmi alla noia astiosa di questo inutile pomeriggio che sta scivolando verso una serata già irrancidita, senza speranza alcuna.
Non siamo così differenti dai cani che quando si incontrano sulla via si annusano, blandendo e minacciando in egual misura, con l’unica differenza di rimandare la prevedibile esplorazione delle parti intime ad un momento appena successivo e più appartato.
Usciamo in quello che Lisa ha definito sbrigativamente giardino e che è un enorme e spettacolare giardino all’italiana, disposto su diversi livelli collegati da scalinate in pietra. Attorno ad una fontana ottagonale con l’acqua zampillante da un gruppo marmoreo centrale, sentieri inghiaiati si snodano tra siepi di photinia e di bosso, aiuole fiorite e, a delimitare e raccogliere questa meravigliosa geometria, alberi ad alto fusto e piante da frutta. E’ un luogo esteticamente ineccepibile, dove la natura è completamente e provvisoriamente dominata dall’uomo e modellata in simmetrie rigorose, ma tutto questo armonioso equilibrio finisce per mettermi a disagio.
Stiamo argomentando proprio su queste considerazioni quando raggiungiamo una radura appartata sotto gli alberi dove si trova un padiglione in muratura a colonne, arredato con divani dalla struttura in ferro ammantati di morbidi cuscini candidi e da bassi tavolini in ferro battuto e cristallo. Lui cammina con passo leggero ed elastico nei suoi mocassini inglesi, mentre io sono impacciata dallo stretto tubino ed arranco sui i tacchi alti, ma so di avere gambe bellissime ed ora lui le sta guardando, allora disfo con gioiosa soddisfazione l’elaborata acconciatura del parrucchiere, scuotendo i capelli lunghi e mossi che il medesimo parrucchiere ha deciso di colorare con la calda tonalità della buccia delle castagne.
Mi sono stufata di questa giornata, di tanta aulica perfezione e anche di queste chiacchiere. Ho voglia di uscire da questo scenario impeccabile ed immobile, voglio tornare allo stridore dissonante della vita là fuori, e allo squilibrio disarmonico del vuoto liquido nel quale naufragano certe mie serate.
L’abbraccio arriva dopo un lungo silenzio durante il quale ci siamo pian piano avvicinati respirando ognuno l’odore dell’altro, fino a quando non ci è stato possibile percepire il calore della pelle e del fiato. E’ stato un avvinghiarsi avido ed impaziente, e sentendo il sapore della sua bocca ho avuto di nuovo quella fulminante sensazione di déja vu.
“…sono sposato”,
dice scostandosi un poco e mostrandomi la fede che porta all’anulare sinistro, che peraltro avevo già avuto modo di notare.
“…non pensavo di chiederti di sposarmi, tranquillo”.
Sono arrivata qui con Francesca, la quale aveva insistito per venirmi a prendere in modo da avere tempo e agio di illustrarmi la sua nuova, entusiasmante vita di coppia, così ce ne andiamo poco dopo sulla sua auto e ci lasciamo alle spalle la Brianza dirigendoci verso Milano. L’arancio ed il miele del tramonto hanno infine ceduto ad un celestino cinereo ed il cielo si rabbuia velocemente, rischiarato da una luna pallida e velata, mentre nell’abitacolo una musica malinconica e suadente occupa tutto lo spazio, e le parole diventano inutile e fastidioso rumore.
Siamo arrivati in via Pontaccio, dove ha parcheggiato l’auto, e ci siamo addentrati in Brera entrando al Jamaica come per un tacito accordo, ed abbiamo lasciato cadere parole a caso nell’atmosfera magmatica di un sabato sera, solo per prolungare scientemente l’attesa di ciò che era già deciso cinque minuti dopo che ci eravamo incontrati.
Ero convinta di conoscere bene Milano, città nella quale sono nata e cresciuta, ma quando abbiamo imboccato una serie di strette vie traverse ad un certo punto ho perso del tutto l’orientamento, complice anche qualche Gin Martini di troppo che ho bevuto al Jamaica. In fondo ad un vicolo del quale ignoravo l’esistenza un portone spalancato immette in una vecchia corte sulla quale si affaccia una casa a ringhiera bassa e malmessa. Nessuna luce filtra dalle persiane di legno dalla vernice grigia scrostata in più punti: sono tutte chiuse, gli occupanti degli appartamenti – non più di quattro, mi par di capire – devono essere tutti fuori. Non vi è nulla di strano in questo, è una mite serata di fine settembre, è sabato e siamo in Brera, eppure trovo che questo luogo abbia un fascino un poco funereo.
E’ quel che affermo intanto che saliamo per una vecchia scala dai consunti gradini in pietra, dove ristagna un odore penetrante di polvere e umidità, e quando sbuchiamo sulla balconata lui ride sommesso mentre armeggia con la chiave per aprire la porta ridicolmente leggera. Un grosso gatto nero sbucato dal nulla ci osserva per un istante con sfavillanti occhi del colore della giada e poi si dilegua senza fretta nella notte.
Entriamo in una stanza inaspettatamente ampia che raggruppa tinello, cucina e salotto, attrezzata in modo funzionale ed anonimo. Lui mi spiega che l’affitto di questo ammobiliato lo paga il gruppo bancario per il quale lavora a Milano da un paio d’anni, mentre la sua famiglia vive a Bolzano, e che si è limitato a scegliere la zona perché è subito rimasto affascinato dall’atmosfera bohémienne e genuinamente alternativa di certe vie di Brera.
Lo ascolto distrattamente perché non sono minimamente curiosa della storia di quest’uomo, che mi interessa solo qui e ora, ma credo che lui lo abbia capito perfettamente. Non vi è dolcezza né complicità alcuna in questo incontro, stupendamente puro nella sua fugacità: non vi è finzione, nessun bisogno di apparire migliori di quello che si è, nessuna pretesa, nessun ricatto: siamo così veri spogliati di passato e di futuro, solo l’effimero presente, solo avida e momentanea esigenza di mescolarsi e di vorticare per qualche momento, per poi tornare ognuno nella propria lontanissima orbita.
Mi risveglia il silenzio, perché per chi abita in un qualsiasi rione popoloso di Milano il silenzio è irreale, è quasi un segnale di allarme. Dalle persiane giunge uno strano chiarore opaco, e non capisco se sia già mattina o ancora notte, ma ho un gran mal di testa, e maledico il miscuglio di champagne e Gin Martini di ieri, o di oggi, chissà che ore sono, perché le lancette del mio orologio si sono fermate sulle dodici, o più probabilmente mezzanotte.
Lui dorme volgendomi le spalle, di un sonno profondo e rilassato, a giudicare dal respiro tranquillo e regolare. Mi rivesto in fretta nell’oscurità di quella casa fredda e silente, ed esco piano senza voltarmi indietro, perché è un risveglio uguale a tanti altri.
E’ già mattina ma una nebbia densa e ottundente fluttua in una stupefacente assenza di rumori e di suoni. Esco dalla vecchia corte e percorro lo stretto vicolo fino in fondo, poi non so dove andare e cerco con la mano il contatto con il muro; una nebbia così a Milano in non l’ho mai vista e la ricordo solo nei racconti del nonno, ma certo non alla fine di settembre. Procedo a piccoli passi incerti ed è come camminare ad occhi chiusi, mentre un’ansia primitiva e montante mi sta ottenebrando la mente, e se sapessi bene dove mettere i piedi incomincerei a correre.
Dopo un tempo che mi è sembrato infinito la foschia si dissolve all’improvviso, neanche avessi varcato una soglia, e Milano è ancora qui, con i confortanti rumori della metropoli che riemerge dal sonno, una qualsiasi domenica mattina. Sono in via Solferino, fermo un taxi che passa sulla strada e mi faccio portare a casa.
Casa, calda e consolatoria come un vecchio maglione che nel tempo si è adattato ad ogni curva o spigolo del mio corpo: sono poche le persone con le quali ho condiviso questo spazio, perché ne ho fatto il tempio della mia più intima ed inviolabile essenza. L’acqua calda scorre nella vasca colorandosi dell’azzurro dei sali che si disciolgono velocemente. Mi ci immergo, inspirando il vapore fragrante.
Dove ho già incontrato quell’uomo? Già, non conosco nemmeno il suo nome. Ieri non mi sembrava importante saperlo, e in fondo nemmeno oggi.
Il tempo è cambiato repentinamente e il sole ha ceduto il posto ad un grigiore sbiadito e fermo. Non so come mi sia venuto in mente di riordinare le vecchie foto che giacciono alla rinfusa in uno scatolone da molti anni, ma mi trovo seduta sul pavimento, circondata da centinaia di pezzettini del mio passato, recente e remoto. Penso che dovrei cercare di dividerle per anno, e incomincio con le foto di quando ero bambina. Fatico un poco a riconoscermi tra quelle scolarette in grembiulino bianco e fiocco rosa, mentre le mie fattezze negli anni del liceo mi appaiono decisamente più familiari. E’ in una foto che mi ritrae assieme a delle compagne e ad alcuni professori davanti all’ingresso del Parini che lo riconosco, senza ombra di dubbio: l’uomo di ieri sera. Sospinta da un’agitazione convulsa osservo altre foto pescandole alla rinfusa e lo ritrovo in altre immagini: sempre sullo sfondo, un poco defilato, la medesima aria da intellettuale schivo, un uomo senza età, immutato su tutte le foto seppure scattate in periodi differenti.
Non sto nemmeno a rivestirmi, salto in macchina in tuta e scarpe da ginnastica e torno in Brera, lasciando l’auto in via Pontaccio. Seguo lo stesso percorso di questa notte, almeno fino ad un certo punto, poi mi perdo e non riesco a ritrovare quel dannato vicolo. E’ la una di una domenica accidiosa che sa già di autunno, e non c’è in giro nessuno. Ad un certo punto scorgo alla mia sinistra uno stretto e breve budello e mi ci infilo, ed ecco il portone dal quale si accede all’antica corte.
La casa al suo interno è chiaramente, indiscutibilmente disabitata: alcune persiane sono spalancate su finestre dai vetri opachi di sporcizia e le porte sono sbarrate da assi di legno inchiodate agli infissi. Un grosso gatto nero dagli occhi di giada mi osserva senza alcuna compassione dal davanzale sul quale sta regalmente accomodato, muovendo appena la lunga coda.
Sono immobile in mezzo alla vecchia corte, dove ostinati ciuffi d’erba crescono nelle crepe della pavimentazione sconnessa, lo sguardo levato verso la ringhiera deserta. Un raggio di sole sbuca repentino tra le nubi basse e dietro il vetro impolverato di una finestra intravvedo il bel viso austero dal pizzetto impeccabile. Un attimo appena, ed è scomparso per sempre.
E’ solo uno, nessuno e centomila, un inutile momento di verità, una goccia d’acqua subito evaporata nel deserto senza orizzonte della mia cocciuta solitudine.
https://youtu.be/tU6o0FFBrqs