Esiste una relazione – meno remota di quanto si immagini – tra Ferguson, Missouri e Qiemo, Xinjiang. La prima è una tipica cittadina del Midwest, la seconda una contea dell’estremo occidente cinese, abitata al 78% da Uiguri, la minoranza turcofona e mussulmana della Cina. Sulla carta, situazioni sociali, paesaggi, culture non potrebbero essere più diversi.
Due episodi hanno tuttavia reso possibile un’analisi delle contraddizioni che comunemente da esse emergono. I fatti di Ferguson, nell’area metropolitana di Saint Louis, sono noti. L’immotivata uccisione di un ragazzo nero da parte di un poliziotto bianco ha scatenato una serie di proteste dentro e fuori gli Stati Uniti. I paesi più antagonisti non hanno risparmiato le critiche al sistema, con le accuse di esclusione sociale, violenza diffusa, oppressione nei confronti delle minoranze.
La Cina è stata in prima fila nelle accuse, dove la parola “razzismo” si è squagliata nella più generale contrapposizione tra sistemi sociali. Nei media cinesi è stato etichettato come “una malattia radicata e cronica che continua a mantenere frantumata la società americana”. Queste posizioni non sono nuove. Vanno messe comunque in relazione con la notizia che arriva dalla remota località cinese al confine con il Pakistan e l’intrico di frontiere delle repubbliche centroasiatiche ex sovietiche. Le autorità locali hanno deciso di compensare con 10.000 renminbi annui (1.257 Euro) i nuovi matrimoni tra coppie interetniche, formate cioè da coniugi uiguri e cinesi. Il bonus durerà 5 anni, in un luogo dove il reddito individuale è di 7.400 renminbi annui. La spiegazione degli amministratori è semplice:
“La nostra considerazione principale è di stabilizzare il Xinjiang e promuovere l’integrazione culturale tra i differenti gruppi etnici”
La domanda di fondo è invece più complicata. Perché, a distanza di 65 anni, l’integrazione tra Cinesi e Uiguri ha bisogno ancora di incentivi monetari? E perché nessun matrimonio misto ha avuto luogo, nonostante i soldi promessi? Le risposte vanno ovviamente cercate in vari campi, compreso quello socio-antropologico.
L’espansione Cinese verso le marche di frontiera (Xinjiang, Tibet, Mongolia, Yunnan) ha avuto la caratteristica della conquista politica e dell’imposizione di un sistema cinese. Indipendentemente dai progressi materiali, che comunque sono stati rilevanti, il tratto comune è stata l’imposizione di una cultura, di uno stile di vita differente. Ancor oggi, tutte le minoranze protestano (in maniera drammatica a Urumqi e a Lhasa) per i tentativi disinvolti e brutali di assimilazione, come se la missione cinese sia quella di investire con la propria superiorità i popoli che non ne hanno tratto vantaggio. Tutte le proteste convergono in un unico timore: quello di essere minoranza a casa propria, di diventare vittime dell’espansione cinese e soprattutto della sua potenza inarrestabile. Gli stranieri occidentali in Cina subiscono un retaggio di diffidenza che – giusto o esagerato – non si giustifica con la lunga fase di convivenza e di “ascesa pacifica” che la Cina sottolinea. Gli occidentali non vivono certamente in pericolo, ma percepiscono differenza e diffidenza. Chi vive in Cina conosce bene le connotazioni dei non cinesi, anche da persone di cultura elevata.
“Diavoli stranieri” e “scimmie” sono purtroppo epiteti ancora molto diffusi nel linguaggio comune. Ovviamente l’orgoglio nazionalista non può essere confuso con l’arroganza culturale e quest’ultima non si identifica con il razzismo. Sarebbe superficiale qualificare con questo aggettivo la Cina. Bisogna infatti essere prudenti e profondi nelle valutazioni. Gli Stati Uniti non sono esenti da gravi contraddizioni e problemi, ma una Cina moderna e in crescita dovrebbe privilegiare le analisi e lasciare le armi della propaganda, così poco meditate da potersi facilmente ritorcersi contro di lei.