Un manager deve liberarsi dalla maledizione corrente nei paesi industrializzati in grave crisi di crescita: nella crisi è bravo chi taglia, chi riduce i costi, chi ristruttura senza troppe perdite. Soprattutto nei paesi industrializzati la situazione impone la sciabola e non il fioretto, la riduzione delle perdite piuttosto che l’espansione delle attività. L’antagonista non è più solo reale come abbiamo appreso nei libri universitari: il sindacato oppositore, la burocrazia inefficiente, il governo incompetente. Nella situazione corrente i pericoli per un CEO sono immateriali: è più difficile attrezzarsi contro lo spread, la riduzione della spesa pubblica o il calo dei consumi? Ne deriva una situazione paradossale: nati per espandere l’azienda, per affiancare la proprietà, i manager oggi devono spesso gestire la ritirata strategica. Tra i loro compiti c’è spesso l’incarico di vendere, dismettere, delocalizzare.
Tuttavia anche dove si trasferiscono risorse – in Estremo Oriente – un CEO deve rivedere le sue convinzioni, abituarsi a un mondo meno schematizzato. Lì la congiuntura non è così devastante. Imparerà probabilmente che l’espressione “crisi globale” non si applica a tutti i paese e che chi rallenta in Asia lo deve soprattutto perché i paesi Ocse hanno ridotto le loro importazioni. Eppure esiste un’altra insidia con al quale convivere: la complessità dei fenomeni. La globalizzazione ha reso più difficili le analisi, più complicate le strategie da adottare. Le interpretazioni tradizionali non sono sufficienti a descrivere la realtà. Sono improduttive le vecchie contrapposizioni: beni di consumo vs beni strumentali, terzo mondo vs paesi ricchi, stati totalitari vs società democratiche, mercati in crescita e mercati attrattivi. È sufficiente l’esempio più eclatante: la Cina è un paese socialista o capitalista; agricolo o industrializzato, ricco o povero? Di conseguenza, cosa bisogna produrre o esportare? L’aumento della domanda sarà accompagnato da una crescita dei margini? Oppure la crescita più che proporzionale degli investimenti e dell’offerta renderà il settore industriale in sovra-capacità pur in presenza di forte crescita dei consumi? Il paese ha un reddito pro capite medio nella graduatoria mondiale, importa quasi esclusivamente materie prime e macchinari, però rappresenta il più grande mercato al mondo per i beni di lusso. È contemporaneamente il più grande inquinatore mondiale e il paese che spende di più in attrezzature eco-friendly per cercare di porre un argine ai disastri ambientali che ha provocato.
Queste contraddizioni aumentano la complessità, impongono ai CEO decisioni più meditate. La globalizzazione le ha estese a tutta l’Asia. L’India ha ⅓ della popolazione analfabeta, ma vanta i migliori talenti informatici; Singapore ha un basso costo del lavoro, ma è densa di milionari che che fanno scnizzare i valori immobiliari, la Tailandia ha un discreto apparato produttivo, ma è bloccata da un’interminabile crisi politica. In quali paesi deve investire un CEO; dove può strutturare un piano di marketing per le esportazioni; di quale nazionalità saranno gli ingegneri da assumere; come colloca le aziende che controlla nella value chain? Esistono altri dubbi altre tensioni. A Pechino l’aria è irrespirabile, molti manager stranieri lasciano la città o fanno partire le loro famiglie. L’omologazione della Cina agli standard internazionali di qualità della vita procede ancora lentamente. Esistono molte perplessità infine sulla sicurezza e la pace. L’Oceano è ancora Pacifico? La tensione sulle isole non si può spiegare soltanto con una rinnovata e contesa sovranità territoriale. Stanno ri-emergendo nazionalismi mai sopiti, ferite storiche che 60 anni di convivenza non hanno suturato. Colpisce l’animosità dei paesi contendenti, rispetto all’oggetto della disputa. Un CEO strutturato nella mente e esperto nella conduzione deve considerare tutti questi aspetti nello stesso tempo. È condannato alla complessità, anche se essa è partner di un’economia che cresce come in nessun altra parte del mondo.