“Quarto Oggiaro, esecuzione davanti al bar: un morto e tre feriti. La sparatoria è avvenuta ieri alle 21.30 a Quarto Oggiaro, ultima periferia nord di Milano: due uomini hanno fatto fuoco all’esterno di un bar al numero 20 di via Satta, all’angolo con via Pascarella, poco distante dal commissariato di polizia” (Corriere della Sera, 25 maggio 2009)
L’Ispettore Alberto Patané aveva appena finito di interrogare i due cinesi che avevano in gestione il Bar Quinto e naturalmente non aveva cavato un ragno dal buco. Il locale era lo storico ritrovo di teppisti e malavitosi del quartiere fin dalla sua apertura negli anni ’60; a nulla erano servite le retate effettuate dalla polizia in seguito a qualche soffiata, perché evidentemente una soffiata opposta avvisava chi doveva essere avvisato di stare alla larga e così nella rete cadevano i soliti insignificanti pesci piccoli che venivano regolarmente rilasciati nel giro di qualche giorno.
Quella sera, quando la polizia era intervenuta a seguito di una chiamata anonima sul marciapiede davanti al bar c’erano un morto e tre feriti. Nessuno degli avventori aveva saputo dare indicazioni utili sugli esecutori, nonostante l’evento fosse stato preceduto da una rissa iniziata all’interno del locale:
(“…sì, c’era gente che litigava, ma io sono abituato a farmi i fatti miei – no, ma che omertà? Ispettore, io sono solo uno che si fa gli affari suoi”).
Dai casermoni di via Satta e di via Pascarella molta gente era scesa in strada, altri si erano affacciati ai balconi o alle finestre. Qualcuno aveva urlato “infami!!”, e non si era capito a chi l’accusa fosse rivolta. Erano le due del mattino quando l’ispettore salutò i colleghi della Scientifica e i brigadieri Lo Russo e Rovelli, salì in auto e si diresse verso casa.
Abitava sempre in via Padova, anche ora che era di stanza a Quarto Oggiaro: era stato trasferito lì dal Commissariato di viale Monza l’anno precedente, dopo che si era lasciato sottrarre (non aveva saputo impedire che gli fosse sottratta) la pistola d’ordinanza da una ragazza romena (la sua ragazza, per la precisione) che con quella stessa arma si era suicidata.
A parte l’aspetto personale della vicenda, le conseguenze su quella che pareva essere una promettente e rapida carriera erano state pesanti ed infine era stato disposto il suo trasferimento in quell’avamposto all’estrema periferia nord ovest della città.
Alberto era nato a Milano nel ’72 da una famiglia di siciliani che alla fine degli anni ‘60 si erano rassegnati ad abbandonare un luogo amato ma complicato per seguire il flusso migratorio che da sud sciamava verso nord. I Patané avevano tirato la cinghia per anni per far studiare quell’unico figlio, e quando Alberto dopo il servizio di leva aveva deciso di entrare in Polizia ne erano stati orgogliosi. Conseguentemente, avevano patito molto per quel trasferimento che avevano inteso come una punizione – come in effetti era. Non che la zona di viale Monza fosse un paradiso, ma a Quarto il tessuto sociale sembrava essere irrimediabilmente compromesso, nonostante gli sforzi di un Comitato di Quartiere di brave persone animate dalle migliori intenzioni e gli interventi di riqualificazione urbana delle ultime amministrazioni comunali.
L’Ispettore Patané era stato accolto dai nuovi colleghi con la scarsa considerazione che con crudele approssimazione si riserva a “un fesso che si è fatto fregare l’arma da una romena”, ma poiché era un valido poliziotto e una brava persona, si stava a poco a poco conquistando il rispetto della maggior parte dei colleghi e la stima del Commissario Pozzi.
Il giorno successivo l’Ispettore si recò al vicino ospedale Sacco per interrogare uno dei tre feriti. Si stava dirigendo verso il banco delle informazioni, quando la vide uscire dal Pronto Soccorso.
Prima liceo scientifico Volta, sezione B, anno 1986. Alberto notò – insieme a tutti gli altri maschi presenti in classe, nessuno escluso – la ragazzina bionda dalle lunghe gambe strette nei jeans scoloriti entrare in classe e guardarsi attorno con aria di sfida, i libri sotto il braccio. Trattenne il fiato quando la vide dirigersi verso di lui e credette di svenire quando lei lo sfiorò per un breve attimo con quello sguardo azzurro come una scheggia di cielo e prese posto nel banco accanto al suo. Se ne innamorò subito, ne divenne presto il fedele cavalier servente e si accontentò della sua amicizia, sopportando con stoica pazienza le sue crudeli confidenze. Marina Bianchi era bellissima, era brillante ed arguta, provocatoria e sfrontata. Abitava a Quarto Oggiaro e dopo la scuola andava spesso a casa sua a pranzo (sua madre la guardava di sottecchi e di tanto in tanto le sorrideva, intimidita dalla sua bellezza e dalla sua disinvoltura) e restava a studiare con lui tutto il pomeriggio. Si distraeva facilmente, gli raccontava del fidanzatino di turno e di ciò che avrebbe fatto se fosse diventata ricca
(“prima o poi me ne voglio andare da Quarto, da tutto quel grigiore, puzza di periferia, abiti e orologi taroccati e mentecatti che fanno i bulli per sembrare forti”),
poi verso sera lo salutava con un bacio sulla guancia e gli scompigliava i capelli ricci con le lunghe mani piene di anelli d’argento. Nel corso dell’ultimo anno di liceo si mise insieme ad un idiota sociopatico figlio di un avvocato milanese, che frequentava la Bocconi e veniva a prenderla a scuola con il Cayenne; fu allora che la loro amicizia incominciò a sfilacciarsi e si interruppe senza un vero strappo ma all’improvviso quando, alla fine della scuola, lui le confidò la sua intenzione di entrare in Polizia.
“Poliziotto?? Alberto, ma è da sfigati, dai! Sei dalla parte sbagliata, non capisci?”
Non capiva. Ci rimase male e andò comunque per la sua strada. Di Marina non seppe più nulla. E tuttavia, quando fu trasferito a Quarto Oggiaro si chiese che fine avesse fatto, ma non fece mai nulla per cercare di scoprirlo.
Rimase ad osservarla mentre camminava lentamente nella sua direzione, il capo reclinato e le braccia strette intorno al corpo. Cercò invano una traccia dell’incedere sicuro e fiero che ricordava, ma vide solo una donna ripiegata su se stessa che pareva incerta sulla direzione da prendere.
“Marina…”
Marina aveva una vistosa ecchimosi sullo zigomo sinistro e un paio di punti di sutura sul sopracciglio, e l’occhio era talmente tumefatto da essere ridotto ad una fessura lacrimante. Lo guardò con evidente imbarazzo e si portò la mano al volto, in un gesto ancora indeciso tra il bisogno di indicare e la necessità di nascondere.
“…normalmente ho un aspetto migliore di quello che vedi oggi. Sono scivolata in casa e ho centrato una porta, pensa che storia…”
Alberto la guardò senza commentare: aveva visto troppe donne sbattere contro porte inesistenti.
“…ma che ci fai da queste parti? Non abiti più in via Padova?”
“Abito sempre là, ma sono stato trasferito al Commissariato di via Satta. Una lunga storia. Tu?…”
“Una storia molto più breve, di sicuro. Magari un giorno te la racconto davanti ad un caffè, se ti va”.
“Certo. Chiamami quando vuoi”,
le rispose allungandole un biglietto da visita. La guardò allontanarsi in fretta e si sentì oppresso da una tristezza greve. Fu avvicinato da una giovane dottoressa che conosceva di vista e che lo distolse dalle sue nebbie interiori toccandogli un braccio con un gesto gentile:
“Ispettore, se quella ragazza è una sua amica cerchi di convincerla a denunciare quel disgraziato di suo marito, prima che la ammazzi di botte”.
L’Ispettore fece qualche ricerca e scoprì che Marina era sposata dal 2004 con Simone Lupi, uno dei tanti galoppini che spacciavano droga per il clan Tatone e che i suoi colleghi tenevano d’occhio da diversi mesi.
Dopo qualche settimana le indagini sulla sparatoria al Bar Quinto erano incagliate nell’annosa, ingarbugliata matassa della lotta tra clan rivali per il controllo del territorio per lo spaccio di droga. Si conoscevano i mandanti, si era vicini all’identificazione degli esecutori materiali, restava la difficoltà di costruire un impianto accusatorio supportato da prove inoppugnabili ma l’arresto non avrebbe compromesso seriamente il sistema criminale, perché probabilmente nessuno dei fermati – di certo figure di secondo piano – avrebbe collaborato seriamente.
Era una soffocante sera di luglio e l’Ispettore Patané se ne stava sbracato sul divano di casa, al buio e con una bottiglia di birra ghiacciata in mano, tutte le finestra spalancate e la voce calda e graffiante di Janice Joplin che masticava pezzettini di cuore (“take another little piece of my heart now, baby”) mentre il traffico ignaro fluiva su via Padova.
“Tutte queste aspettative con le quali la gente si aggira per l’estate, che cosa insensata”, pensava l’Ispettore quando lo squillo destabilizzante del telefono irruppe nel suo torpore meditabondo.
“Ciao, Alberto, posso salire? Sono nel bar di fronte a casa tua”.
Non ebbe il tempo di valutare se la cosa gli facesse piacere.
Sul volto di Marina ritrovò intatto il fascino intrigante che ricordava così bene, ma lo sguardo rivelava un animo ferito e disilluso. Si raccontarono diciassette anni nella stanza che diveniva sempre più buia
“non accendere la luce, sarà più facile”.
Parlando sottovoce per non smuovere quella densa penombra Alberto le raccontò di Magda e del Ponte di San Cristoforo sul quale non era mai più andato, e seppe che Marina aveva sposato Simone Lupi dopo varie storie finite più o meno male ed era rimasta inchiodata a quel luogo che aveva sempre detestato, passando da Via Val Trompia (dove stavano ancora i suoi) al numero 33 di via Pascarella. Non ci aveva messo molto a scoprire gli intrallazzi di suo marito ed il lato oscuro che lo rendeva incapace di gestire la rabbia. All’inizio dell’anno, per effetto della crisi economica che stava travolgendo mezza Europa la ditta presso la quale lavorava come impiegata aveva chiuso, e lei era tuttora disoccupata.
“Che successo la mia vita, vero? E adesso non ho paura delle botte di mio marito, ma del fatto che in generale sto esaurendo la capacità di reagire. Mi sto rassegnando, sto pensando che forse in qualche modo me lo merito”.
E fu così che dopo un poco caddero nella trappola di una malinconia vischiosa e dolcissima che pareva impregnare l’aria e che finì per mescolare i loro respiri e le loro anime lacerate in più punti. Fuori, da qualche parte, Milano scorreva nella notte estiva, indifferente a tutto quel rimestamento di fiati, di umori e di destini.
“Lascia quella casa e quell’uomo, Marina. Lo stiamo tenendo d’occhio, prima o poi finirà in guai seri”.
“Mi ammazzerebbe. O mi farebbe ammazzare, ne sono certa,,,”
“…ma io ti proteggerò”
Lei gli passò le mani tra i capelli ricci, come allora,
“tu non puoi più proteggermi, Alberto. Nessuno può proteggermi. Ti chiamo presto”.
E lo lasciò solo a barcamenarsi con i suoi dubbi ed i suoi tormenti nella stanza buia.
L’Ispettore Alberto Patané rimase immobile per un po’, fiutando nel buio una lieve traccia del profumo di Marina. All’improvviso gli tornò alla mente un particolare – il tonfo della sua borsa di tela sul pavimento, come se contenesse qualcosa di pesante – e capì quello che Marina aveva già deciso, prima di venire da lui.
Si vestì in maniera approssimativa, si mise in tasca il tesserino e la pistola e si lanciò giù per le scale. Era uscita da dieci minuti circa, Alberto guidava veloce lungo Viale Brianza. Il giorno che l’aveva incontrata all’ospedale l’aveva vista salire su una Passat familiare bianca, la avvistò in viale Enrico Fermi e la seguì fino in via Pascarella. Si fermò ad una certa distanza, la vide scendere, dirigersi a passi veloci verso l’ingresso ed entrare nella Scala D. Pochi istanti dopo, una delle finestre al secondo piano si illuminò. Un grido soffocato, rumore di vetro infranto, – Alberto schizzò fuori dall’auto, estrasse la pistola e corse verso l’ingresso della Scala D – una voce maschile, rabbiosa, l’urlo di Marina – salì gli scalini a due a due e arrivò ansante sul pianerottolo – poi gli spari – uno due tre quattro cinque, revolver a 5 colpi, elaborò meccanicamente il suo cervello. Rimase fermo davanti a quella porta con le orecchie ronzanti e la mente vuota, mentre qualcuno si affacciava cautamente sugli altri pianerottoli.
“Aprite, polizia!”
(sembra un brutto telefilm e la gente si chiederà come ha fatto la polizia ad arrivare tanto in fretta).
Marina aprì. Stava sanguinando dal labbro spaccato e il sangue le colava sulla camicetta bianca. Si fece da parte e l’Ispettore Patané vide Simone Lupi riverso a terra, tra un tavolino rovesciato ed i cocci di quello che doveva essere stato un vaso di ceramica. Dei cinque colpi esplosi, tre si erano conficcati nella parete di fronte, due avevano colpito l’uomo alla gola, aprendo un ampio squarcio e tranciando la carotide.
Alberto guardò Marina e lei sostenne il suo sguardo.
“Dovevo farlo. Lo capisci?”
“No. Sono un poliziotto, ricordi? Non posso capire. Ascolta con attenzione: sei venuta a cercarmi chiedendo il mio aiuto perché volevi denunciarlo, ti ho accompagnata a casa seguendoti con la mia auto perché temevo per la tua sicurezza e appena sei entrata lui ti ha aggredita. Avete lottato, in qualche modo sei riuscita a sottrargli il revolver ed hai sparato. Ti riconosceranno la legittima difesa, i medici del Sacco potranno testimoniare che sei andata varie volte al Pronto Soccorso con ferite compatibili con atti di violenza domestica. Attieniti a questa versione, te la caverai”.
Andò in bagno e prese un asciugamani, le tolse di mano la Smith & Wesson 36 (notò che aveva la matricola abrasa), la ripulì accuratamente e usando l’asciugamani strinse attorno al calcio la mano destra del morto – “ non è mancino, vero?” – quindi la sporse a Marina dicendole di impugnarla.
Telefonò in Commissariato, arrivò Lo Russo che era di turno e poi il medico legale e fecero tutto ciò che andava fatto, come tante altre volte.
Erano quasi le sei del mattino quando Lo Russo fece salire Marina sulla macchina che l’avrebbe condotta in Commissariato, il quartiere si stava animando e nuvole temporalesche correvano veloci nel cielo, sospinte da un vento caldo e capriccioso che faceva turbinare in aria cartacce e polvere. Un lampo squarciò quel cielo incupito, seguì un tuono crepitante che si dissolse in un brontolio profondo e la pioggia prese a cadere violenta e rumorosa.
L’Ispettore Alberto Patané osservò le cartacce ricadere a terra, appesantite dall’acqua; si sarebbero presto dissolte in una poltiglia grigiastra e inutile. Si ritrovò a pensare che per la seconda volta non aveva saputo difendere da se stessa una donna che avrebbe potuto amare (“se vado avanti così divento una specie di assassino seriale indiretto”) e rise tra sé e di sé per la sua inadeguatezza ma si rese subito conto che non c’era nulla da ridere, e allora rivolse il volto a quel cielo incattivito, per potersi illudere che ciò che gli rigava le guance fosse solo pioggia.
https://youtu.be/-RXRHmIFB_c