La situazione nel Pacifico non consente indugi. Molte cose sono in corso e tutte hanno un marchio inequivocabile: l’espansione della Cina. Il successo diplomatico di Pechino con le adesioni alla sua creatura – la banca asiatica degli investimenti – è soltanto l’ultimo atto di una politica estera assertiva, giudicata concettualmente pacifica o aggressiva, secondo le convenienze e i punti di vista. Per questo Washington, isolata nel suo rifiuto di aderire all’AIIB, è corsa ai ripari. Il Congresso ha cambiato il copione della sua politica estera e ha autorizzato la costituzione di un fast-track, una corsia preferenziale e veloce per chiudere l’accordo del TPP, la Trans Pacific Partnership le cui trattative stagnavano dal 2005. Dodici paesi dei 2 versanti del Pacifico (dunque anche dell’America Latina) hanno intrapreso un round negoziale finora interminabile che ha ora assunto connotazioni fortemente politiche. Imperniata sulla partnership tra Usa e Giappone, comprende il 40% del Pil mondiale e ha un’evidente impostazione anti-cinese.
Per accelerare le trattative, il Congresso, con una decisione bipartisan, ha scelto la velocità, riscrivendo la sceneggiatura abituale. Nei film americani si vedevano i matrimoni celebrati con la formula di rito del sacerdote: “Chi ha da dire qualcosa, lo faccia ora o taccia per sempre”. Ora la tempistica è rovesciata: lasciate lavorare i negoziatori senza interferire, poi il legislatore discuterà e voterà sull’intero pacchetto finale. Sarà costituita una Trade Promotion Authority che accelererà i passaggi amministrativi prima del voto finale. Questo si annuncia molto combattuto soprattutto al Congresso, mentre al Senato il passaggio dovrebbe essere garantito. Obama si è dichiarato molto soddisfatto del fast track accordato perché sa bene che probabilmente di fronte a un risultato finale ben strutturato, difficilmente gli mancheranno i voti necessari. Tuttavia l’opposizione al TPP (e quindi al privilegio accordato) è forte al Congresso e soprattutto si concentra proprio nel Partito Democratico.
Sono infatti alcune sue forti basi elettorali a contestare l’accordo. Il motivo è semplice e immediato: un timore diffuso di perdere il lavoro, di essere esposti alla concorrenza internazionale basata su bassi salari, di vedere eroso il welfare state. Sono queste le preoccupazioni dei lavoratori in fabbrica, dei sindacati, delle minoranze – soprattutto latine – che svolgono lavori non specializzati. Esistono poi valutazioni forse meno concrete ma che comunque coinvolgono l’opinione pubblica liberal, che paventa uno scarso controllo dei diritti umani, degli standard ambientali, dell’etica degli affari, a favore di multinazionali che curano soltanto i loro profitti. Infine, una parte del Partito Repubblicano si è opposta al fast track per non dare un’arma importante a Obama in vista delle elezioni per la Casa Bianca del prossimo anno. Il Presidente ha pilotato il suo partito e la frazione meno ideologica dei Repubblicani verso un accordo importante, che aprirà la strada alla firma del TTP. Sa bene che se alcuni settori del suo paese saranno penalizzati, altri (soprattutto l’agricoltura e i servizi) ne verranno favoriti. Continua a confidare nelle virtù di una globalizzazione governata, dove l’eliminazione di dazi, barriere, ostacoli al movimento delle forze produttive sarà forse non indolore ma certamente aumenterà la ricchezza complessiva.